Breve descrizione di una lavanderia pompeiana
Pecunia non olet: questa è la risposta che, secondo quanto tramandato da Svetonio, l’imperatore Vespasiano rivolse al figlio Tito, il quale contestava la centesima venalium, imposta sull’urina raccolta nelle anfore collocate presso le latrine gestite dai privati. Nel mondo romano l’urina rappresentava un elemento fondamentale all’interno delle fullonicae. I Romani non conoscevano il sapone ma erano molto attenti sia all’igiene personale che alla pulizia del proprio vestiario. Se è noto il frequente utilizzo delle terme, meno conosciuta è la presenza delle fullonicae, vere e proprie lavanderie. La più famosa è la Fullonica Stephani. Oltre a rappresentare un’impresa commerciale ante litteram, è altresì un esempio di come residenze nobiliari, in seguito ai sempre più numerosi eventi sismici, fossero state acquistate da liberti ed adattate ad opifici. Pistrinae, cauponae e fullonicae erano tra le attività più redditizie: si presume, infatti, che il corpo ritrovato all’interno della citata fullonica con circa mille sesterzi fosse quello del proprietario. È interessante osservare come il funzionamento di una fullonica, ma anche quello di una caupona, seguisse dei meccanismi assimilabili a quelli di una moderna azienda di produzione. In ogni ambiente si svolgeva una fase operativa: i capi venivano posti all’interno di grosse tinozze e pigiati con i piedi all’interno di un liquido composto da acqua e, spesso, urina (particolarmente richiesta era quella di dromedario). Successivamente i capi venivano risciacquati con abbandonante acqua all’interno di ampie vasche comunicanti e messi ad asciugare. Per sbiancare i tessuti, invece, usavano lo zolfo arso all’interno di bracieri (elemento sostituito dalla cenere ai tempi dei nostri nonni). Si procedeva, infine, alla stiratura che avveniva attraverso delle presse a vite così come mostra l’affresco ritrovato all’interno di una fullonica pompeiana e conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli